La maggior parte dei ragazzi che passano e si fermano da don Gino, nella sua Casa di Accoglienza a Trenno, sono minori non accompagnati, giovani che hanno affrontato il viaggio verso l’Italia da soli. Spesso non hanno nessuno che si prenda cura di loro, o magari si affidano a parenti lontani che poi li lasciano a sé stessi. Sono ragazzi che, una volta usciti dai circuiti di accoglienza tradizionali, come dai rapporti con i servizi sociali del territorio, si trovano in situazioni di grande vulnerabilità. Gli si chiede di essere adulti quando ancora non lo sono e di arrangiarsi e sbrigarsela da soli, navigando nel mare di burocrazia che è respingente anche per la maggior parte di chi non ha una storia come la loro alle spalle. Con Giuliana abbiamo provato a capire cosa significa per loro trovare qualcuno che li sostenga in questo percorso per essere riconosciuti dalla società.
«Molti di loro arrivano qui senza conoscere la lingua, con riferimenti educativi e culturali lontanissimi dai nostri, o portandosi dietro inciampi e ferite. Il cammino non è semplice, è un percorso fatto di piccoli passi: si parte dal renderli “visibili”, aiutandoli a ottenere i documenti – il vero e proprio riconoscimento della loro esistenza nella società – e si arriva a progettare insieme un futuro che passa dalla concretezza di possibilità quotidiane, che a volte si danno per scontato: la ricerca del lavoro, la richiesta di un certificato, l’accesso alle cure mediche,… Per loro, la casa di don Gino rappresenta spesso l’ultima possibilità, l’unico luogo in cui sentirsi accolti e aiutati».
Un sabato mattina siamo andati trovare questi ragazzi a Trenno. Hanno preso seriamente la sfida di avere cura degli spazi che abitano insieme e ne abbiamo avuto prova appena entrati. All’ingresso veniamo accolti da qualche secchio e dall’odore inconfondibile di vernice perché alcuni dei suoi ragazzi hanno deciso di dare un nuovo volto alla casa in cui abitano. S. e R. sono arrampicati sulle scale, con pennelli e rulli impregnati di vernice bianca, per dipingere ogni angolo della parete, anche il più nascosto. Nella rampa di scale rimbomba una musica mediorientale che accompagna le pennellate decise dei ragazzi che stanno ultimando il lavoro.
Quando ci vedono ci salutano sventolando i pennelli e al movimento di uno l’altro si ritrova con qualche schizzo di vernice sul viso, ma niente che un sorriso non possa trasformare in una piccola avventura da raccontare. «Questa settimana ci siamo dedicati alla pittura del piano terra, ora saliamo! State attenti a dove mettete i piedi per non sporcarvi, non siamo imbianchini esperti”» ridono. «Ogni stanza che dipingiamo va preparata al nostro passaggio, per questo ci sono i cartoni sparpagliati per terra, per non sporcare il pavimento!» ci raccontano. Imparare a dipingere richiede tempo e un buon maestro, ma per ragazzi con storie difficili non è tanto il risultato quello che conta, quanto la voglia di mettersi in gioco.
E mentre discutono su come posizionare la scala per procedere con l’imbiancatura del soffitto, in cucina qualcuno li attende per uno spuntino. Le brioches donate per il grande lavoro sembrano già raccontare una promessa di pausa golosa. “Caffè?” ci chiedono mentre preparano la moka. S. e Y., richiamati forse dal profumo del caffè o forse perché era tempo di una pausa tra una pennellata e l’altra, arrivano in cucina con magliette e pantaloni una volta neri, ora macchiati di bianco – una vera opera d’arte anche quelle! Ci salutiamo lasciandoli raccontare il loro sabato mattina fatto di vernici, pennelli e una casa che inizia a cambiare volto.
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