Don Gino Rigoldi è il cappellano del carcere minorile Beccaria, a Milano. Da sempre è impegnato sul fronte dei diritti dei detenuti.
Qualcuno legge questa prima mossa del governo Meloni sul carcere come troppo dura perché aggiunge paletti per l’accesso ai benefici penitenziari. Lei cosa ne pensa?
«Si parla di reati molto gravi, soprattutto mafia e terrorismo. E non la leggerei come una svolta in termini di durezza. Lo ritengo un giudizio eccessivo».
Quindi nulla da eccepire sulle novità introdotte?
«Non dico che sia la modalità più giusta, ma parliamo di una scelta legata a dei reati molto specifici. Non è questione di essere duri o meno duri: bisogna seguire le leggi dell’umanità e poi quelle della nostra Costituzione. Sul tema del carcere ostativo c’era per altro la necessità di rispondere alle richieste della Consulta. Piuttosto, penso che i problemi più urgenti delle carceri siano altri…».
Cosa serve?
«Quello di cui abbiamo bisogno non è più durezza: le condizioni di vita dei detenuti sono mediamente già molto difficili. Si offende la loro dignità e si negano diritti. Bisogna che ci si muova in un’altra direzione, quella del rispetto delle persone».
Ci dica quali sono le prime tre priorità.
«Numero uno, avere i direttori delle carceri e comandanti degli agenti. Se un direttore deve seguire quattro istituti diversi, vuol dire che non comanda nessuno. E se non c’è un direttore, non c’è un programma e si va avanti solo per la gestione ordinaria: non si fanno corsi di formazione, eventi culturali e non c’è modo di programmare nulla. Ci si limita a mantenere quello che c’è».
E questo perché è un problema?
«Perché senza programmazione non si possono preparare i detenuti a un dopo onesto, con un minimo di risorse di vita».
Seconda priorità.
«Gli educatori. Ce ne vorrebbe almeno uno ogni cinquanta persone. Nelle case circondariali, dove ci sono i condannati. Se non fosse per gli educatori presenti nelle carceri molti di loro non avrebbero neanche un tramite con l’esterno. Sarebbero completamente tagliati fuori. Un elemento che incide sul grande numero di suicidi. Ci sono degli istituti, come quello di Monza, con 600 detenuti e solo due educatori e uno psichiatra. Una situazione insostenibile, in cui ci sono peraltro persone con disturbi psichici».
Infine?
«Puntare sull’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, quello che consente alle persone la possibilità di lavorare all’esterno».
A cosa serve?
«Lavoro è dignità e futuro. E significa abbattere la recidiva. È il modo di affrontare il grande tema del sovraffollamento. Come si fa a svuotare le carceri? Non costruendo nuovi istituti, né con nuove leggi, ma puntando sulla preparazione all’esterno. Al carcere di Bollate, dove certe cose si fanno già, la recidiva è del 20 per cento, da altre parti si sfiora l’80 per cento. Questa differenza significa meno persone nelle celle e quindi meno affollamento. È persino banale».
Don Gino Rigoldi, cappellano IPM C. Beccaria di Milano, la Repubblica, 01/11/2022