“Tocca a noi educatori cambiare linguaggio. Senza mai avere paura”.

In un’intervista di Marianna Vazzana, don Gino racconta come “siamo noi educatori che dobbiamo metterci nei panni di questi ragazzi “difficili”. Cambiare linguaggio, capire di cosa hanno bisogno”.

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“Siamo noi educatori che dobbiamo metterci nei panni di questi ragazzi “difficili”. Minori stranieri non accompagnati e non solo. Cambiare linguaggio, capire di cosa hanno bisogno. Hanno un’energia pazzesca, pensiamo solo al viaggio che hanno dovuto affrontare per essere qui, arrivando a 14, 15, 16 anni in Italia viaggiando da soli a bordo di un barcone o dopo aver camminato per 200 chilometri lungo la rotta balcanica. Se solo riuscissimo a orientare questa energia in maniera costruttiva! Questo deve essere l’obiettivo”. Ne è convinto don Gino Rigoldi, di 84 anni, storico cappellano del carcere minorile Beccaria.

A Milano ci sono state aggressioni, anche con accoltellamenti, compiute da minorenni ai danni di coetanei. Qualcosa non funziona nel sistema di accoglienza o educativo?

“Partiamo da un fatto: a Milano arrivano centinaia di minori stranieri non accompagnati. Siamo arrivati alla cifra record di 1.300. Molti, prima di essere accolti (e non sempre l’iter va a buon fine) vivono per strada. Di cosa vivono? Mentre peraltro ricevono pressioni dalle famiglie d’origine che chiedono l’invio di denaro a casa. Chi finisce al Beccaria, generalmente commette furti e rapine. Si aggiungono la complicazione dell’essere adolescenti, lontano da casa, analfabeti, e il bisogno di affermarsi, di sentirsi capaci di “qualcosa di importante”. Di “avere le cose” che hanno anche i ragazzi italiani. Vogliono in fretta gli oggetti di quello che ai loro occhi è il paese dei balocchi. Capitava anche negli anni del boom economico agli immigrati che arrivavano dal sud Italia. Quello che non va bene è ammassare i ragazzi da qualche parte. Ma con i grandi numeri che le Amministrazioni, in primis Milano, si ritrovano a gestire, non è semplice”.

E di cosa ci sarebbe bisogno?

“Di un percorso che tenga insieme disciplina, molto importante perché questi ragazzi a Milano non hanno nemmeno un padre, risposta ai bisogni, costruzione di un rapporto di fiducia. Soprattutto, dare loro qualcosa che percepiscano come utile, immediatamente spendibile per il futuro. Se in comunità ci sono troppi tempi vuoti tra un’attività e l’altra e se non si dà al ragazzo la possibilità di imparare qualcosa di concreto, per esempio per diventare pizzaiolo, imbianchino o altro, oltre all’apprendimento della lingua (tutte attività che al Beccaria stiamo potenziando) il ragazzo non si trova a suo agio. Capita che i giovanissimi scappino perché non trovano quello che cercano o perché fuori, nel “branco”, pensano di trovare scorciatoie. E anche nel caso in cui restino in comunità, ritrovandosi di nuovo soli al compimento dei 18 anni, il problema si ripresenta ed è facile si finisca per delinquere”.

Altri punti deboli?

“C’è il sistema da rivedere. Abbiamo 22 misure cautelari che dispongono l’inserimento in comunità, non attuate per mancanza di posti. Dove vanno questi ragazzi? Io ne ho accolti 14, a casa mia. Ma tanti finiscono al Beccaria dove ora, su  una cinquantina di ragazzi, solo un paio sono italiani. Indispensabile saper parlare a questi giovani, dare loro una prospettiva di futuro. E anche in questo caso ci sono difficoltà, perché il numero di agenti penitenziari è inadeguato”.

Il carcere riesce a recuperarli?

“Quello che noto è che dopo le esperienze al Beccaria e al reparto giovani adulti di San Vittore, la maggior parte mette la testa a posto. Matura. Trova una stanza, dove magari dormono in sei, e si dedica al lavoro. Ma cerchiamo di anticipare, di evitare per quanto possibile l’esperienza dietro le sbarre. Questa è una bella gioventù, resistente. Noi educatori mettiamoci in gioco senza avere mai paura. Perché la paura è già un giudizio”.

Intervista di Marianna Vazzana a Don Gino Rigoldi, cappellano IPM C. Beccaria di Milano, Il Giorno Milano, 16/11/2023